Recensione – Infinite Jest

“E Guardate, poiché la Terra era priva di forma, e vuota.

E Oscurità ovunque si stendeva sul Volto del Profondo.

E Noi dicemmo:

Guardate quella fottuta Danza”.

Sto tenendo una rendicontazione severissima sui libri che leggo quest’anno, e sulle tempistiche di lettura degli stessi. Due anni fa li ho abbandonati, li ho trascurati, e mi sono sentita davvero una merda.
Ergo, è necessario recuperare il tempo perso prima che tiri le cuoia e non abbia ancora letto metà di ciò che voglio effettivamente leggere.

Questo libro era sul mio scaffale da un po’, e fra le mie idee da ancora di più. Sono secoli che mi ero ripromessa di leggerlo, ma 1. non lo trovavo in libreria e 2. quando finalmente l’ho trovato a prezzo pieno ho aspettato che ne arrivasse una copia usata. Dopo un po’ di mesi mi sono resa conto che no, non ci sono molte copie usate in circolazione, e forse dovevo farmi qualche domanda.

La risposta è che questo libro non l’ha letto quasi nessuno.

Il perché potrebbe sembrare abbastanza lampante: 1280 pagine nell’edizione dell’Einaudi, quelle belle edizioni mattone che profumano di Enciclopedia e di libri che si tengono sulle mensole all’ingresso per far vedere quanto siamo colti e alternativi in questa casa. No, noi non usiamo Wikipedia, noi cerchiamo davvero. Quindi, chi ce l’ha se lo tiene. Che l’abbia letto o no.

Perché ho provato a leggerlo? Perché, secondo la mia rendicontazione severissima, l’ho finito in un mese e diciassette giorni? Sono forse malata? Mentre all’ultima domanda la risposta appare quasi scontata – certo che lo sono – per le prime due c’è bisogno di un attimo di introspezione.

Sì, introspezione. Perché questo libro, forse vi spiacerà sentirlo, non è altro che una serie di sedute di psicoterapia.

Non fatico a capire perché Wallace si sia suicidato dopo averlo finito.

Che cosa è?

Non lo so. Davvero, non lo so.

Temi: la prima domanda che vi porgeranno tutti, non appena vi vedranno portarvi appresso questo muro di pagine – sì, perché ve lo porterete appresso, giorno, notte, durante il lavoro, mentre cagate, tra una schermata di caricamento e l’altra del nuovo videogioco che avete iniziato (coff – Cyberpunk – coff) – dicevo, la prima domanda che vi faranno sarà la fatidica: 

“Di che cosa parla?”

La cui unica risposta sensata, in questo mese e mezzo, è stata: “Boh. Sono solo a pagina 600”.

Ora che l’ho finito, ma forse anche prima, posso dire che parla di tutto.
Che banalità, Stomaco. Sparati.
No, davvero: parla di tutto. Di ogni cosa.

Quando ero al liceo, il mio prof di Greco era abbastanza una celebrità – e sbragava figa senza ritegno – perché sapeva parlare un po’ di tutto, come le geishe. Sapeva parlare di foglie degli alberi, di nodi nautici, di Catullo, Aristofane e della struttura architettonica delle cantine del Nord Italia.

Questo libro è un po’ il mio prof di Greco, che saluto. E’ un po’ come la Montagna Incantata. C’è dentro di tutto, dagli sproloqui didascalici dell’autore che sembra voglia indottrinarci su qualcosa che lui sa benissimo all’architettura agli incontri degli Alcolisti Anonimi di Boston (di cui ora sono una grande esperta) a come svaligiare un appartamento alla depressione all’anedonia a questa cazzo di stream of consciousness che mi porterò dietro sempre in tutto quello che leggo e che non abbandonerà mai nemmeno voi. L’autore ha inventato, per voi e solo per voi, una struttura politica, le regole di un gioco allucinante, un sistema di numerazione degli anni, una filmografia fittizia con tanto di trame, attori, supporti di pellicola. La Cult du Prochain Train.

Di che parla? Si fa prima a dire di cosa non parli.

In linea di massima, per aiutarvi a capire, c’è una trama centrale che sembra essere portata avanti con un rilento esasperante, ma è un blando pretesto per parlare di quello di cui l’autore vuole davvero parlare: la schifosa società Americana ormai allo sbando e allo sbaraglio, comica, anzi umoristica, riprovevole, ma dopotutto in alcuni casi giustificabile. O forse dell’Io particolare in contrapposizione all’Io Universale. Pensandoci bene, forse è una critica agli Stati (ONAN, nel testo) e ai loro problemi che non valgono nulla in confronto ai problemi dell’anima.

Detto così fa veramente schifo, ma perché dovrei farne una bella pubblicità? Se avete voglia di leggerlo sono beati cazzi vostri. Buoni sogni e buoni incubi.

Genere: questa la so. E’ letteratura postmoderna.
Vi piace Palahniuk? Io personalmente lo adoro. Ecco, Palahniuk ha preso molto da Wallace. Il finale sconcertante, che vi fa venire voglia di rileggere tutto il libro sotto un’ottica di consapevolezza differente (scherzo, non lo rileggerò). La prosa al vetriolo. La cultura pop. citando Bissell nell’introduzione, “anche quando non stai leggendo, ti allena a osservare il mondo reale attraverso le lenti della sua prosa”. 

No, non è come un libro di Ballard, dove non si capisce un cazzo in centocinquanta pagine. così sono capaci tutti. Qui si mantiene una tremenda lucidità, fino alla fine.

Pubblico: non so per chi sia questo libro. Posso affermare senza timore di smentita che non è per chi, come dire, non riesce a pensare lateralmente.

Non so se riesco a spiegarmi in modo esaustivo: io definisco, probabilmente per mio neologismo o per lessico familiare, “pensiero laterale” qualsiasi forma di ragionamento che implichi un secondo (o terzo) sottolivello di lettura. È il prendere un’altra strada per arrivare a un concetto. Per comprendere i personaggi del libro, e quindi il libro stesso, è necessario pensare in modo diverso. In modo inusuale.

Avvertimenti: può essere pericoloso. Sia a livello fisico se banalmente vi cade su un piede, sia a livello emotivo: può indurvi a guardarvi dentro in un modo che forse non vi piacerà. Personalmente, a me è successo.

Le questioni pratiche – ovvero: le domande scomode

Livello di impegno: ★★★★☆. Cazzo se non è impegnativo questo libro. Ok, non gli dò 5 stelle perché ho trovato l’Ulisse molto più difficile da digerire – molti più personaggi, davvero niente punteggiatura. Questo è, per così dire, scorrevole. Peccato che sia immensamente lungo e, a tratti, pesante emotivamente.

Tempo: ★★★★★. Ci vuole il tempo che ci vuole. Non forzatelo, potreste trovarvi la testa troppo piena di tutto.

Difficoltà del linguaggio: ★★★★☆. Come ho detto prima, è uno stile postmoderno. Abbreviazioni mai specificate, parole inventate, situazioni inventate, regole grammaticali inventate, ma, come diceva sempre la mia prof di Italiano – che saluto – un autore bravo può permettersi di inventare una sintassi diversa quando è diventato talmente bravo da padroneggiare maestralmente quella già esistente. E, in effetti, in Wallace si vede; non ne sbaglia una.

Non mi è mai passato per l’anticamera del cervello di dire “qui, forse, avrei fatto diversamente”. Mi è capitato, ad ogni pagina, di dire “cazzo, vorrei averlo scritto io”. Wow.

Divertimento: ★★★☆☆. Direi che 3 stelle su 5 è forse anche troppo. come leggerete in altre centocinquante recensioni, ci sono pagine che fanno sbellicare dalle risate, e altre che trascinano nel rifiuto per la vita più profondo che manco i Grandi Antichi. Ma anche nelle pagine più divertenti si nota una base di tristezza: non sto a spiegarvi la differenza fra comicità e umorismo, ma è chiaro che qui di comico non c’è proprio nulla.

Ansia e disagio: ★★★★★. Un libro che veramente scatena i miei Φόβος e Δεῖμος personali (Crimine e Disagio, dovrò un giorno scriverli in Greco e tatuarmeli sulle cosce). cazzo che depressione cronica. Cazzo che traumi infantili.

Lo adoro.

Difetti: ★★★☆☆. E’ lungo. E’ prolisso. E’ infinito. Ci sono capitoli che durano 40 pagine e non portano assolutamente a nulla, ci sono cento (CENTO) pagine di note a pié di pagina, note esse stessa da decine di pagine e comprendenti delle SOTTONOTE, ma saltare tutto ciò ovviamente non si può, no, perchè in quelle decine di pagine ci sarà una frase, una sola, che ti farà capire tutto. E succede davvero, cazzo.

Le emozioni che trasmette

Ho già detto depressione?

Un personaggio fico: io ho adorato Don Gately. Don è il tipico esempio di ragazzotto adulto con un’infanzia difficile, che si trascina nel male per cercare ingenuamente di salvare gli altri; mangiato dal rimorso di non aver mai fatto abbastanza, è disperato al punto da mollare tutto e non tornare più in superficie. Eppure, da come apprendiamo nei primi capitoli, lui è tornato in superficie, e sta lottando con denti e artigli per non ricadere mai più, nemmeno quando il dolore diventa allucinante ed insopportabile. Perché lui non è un ragazzo intelligente, è solo fisicamente fortissimo: e sapendo solo caricare a testa bassa, risolve tutti i suoi problemi in questo modo.

Personaggi da odiare: non ci sono dei veri e propri cattivi, in questa storia. Tutti hanno dentro di sé della speranza, anche i più malvagi, mentre quelli che a prima vista sembrerebbero perfetti sono forse i più marci.
Tutti, tranne Randy Lentz. Randy Lentz deve morire male. 

Colore: è stranissimo, ma l’ambientazione della E.T.A. (l’Enfield Tennis Academy per rampolli super ricchi e talentuosi) mi ha sempre suscitato immagini in bianco e nero. La Ennett, invece (la casa di recupero per tossicodipendenti e alcolisti) regala immagini vivide, brillanti, vere. Come se la vera vita fosse lì, senza finzioni. Dove tutti sono liberi di essere loro stessi, di chiedere aiuto, di chiedere scusa.

Canzone: una canzone di Bowie, senza ombra di dubbio. Qualcosa di punk e triste.

Rumore: il sordo pop delle palline da tennis colpite da racchette Wilson.

Odore: l’odore delle palline da tennis. Il vapore che fa lacrimare gli occhi dei superalcolici in bottiglia. Il tanfo della spazzatura.

Sensazione: il tarlo continuo che forse, dentro di noi, c’è un angolino marcio che un giorno potrebbe corrompere tutto il nostro interno, mangiandoci da dentro, ed è più importante questo piccolo tarlo di tutto ciò che succede all’esterno, delle guerre, dei complotti, delle armi di distruzione di massa.

Sapore: la bocca asciutta, secca ed amara dopo una canna.

Citazione: “Questo perché è più facile mettere a posto qualcosa se la si può vedere”. 

Lascia un commento